Alessandro Fergola
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Questa non č una piega

di Viana Conti, venerdě 1 agosto 1997

 

In Alessandro Fergola, costruttore di paradossi, la rappresentazione di una piega non è una piega, ma una metapiega, la sua pittura a olio è una metapittura a olio non una citazione della stessa. Analogamente accade per la nozione di barocco, cui il suo panneggio dipinto non cessa di riferirsi, mettendo in rapporto di contiguità allusione ed elusione di uno stile che è movimento, che è un Movimento.
La pittura di Fergola può apparire sottesa a un'architettura collassata. Eppure non si evidenzia alcun elemento architettonico che non sia un gioco di luci e ombre, un effetto mnemonico, mentre lo spazio implicato sulla tela continua a vivere la più mirabolante delle avventure, non mancando mai, tuttavia, di ricomporsi in una sospensione di forme sospettabili di coordinate interne. Inevitabile chiedersi di che ordine sia la pittura di questo autore: sfida al vuoto, tempesta afigurale e innaturale insieme? Quali parametri chiami in causa e quali metta in iscacco, quale sintassi tonale, timbrica, osservi e quale scardini. Il termine apoteosi dello scardinamento potrebbe dimostrarsi confacente al tenore della rappresentazione, senza necessariamente rinviare a una retorica della catastrofe. Pur nella rappresentazione bidimensionale, non c'è effetto di superficie che non sia profondamente motivato. Quello che sembra un firmamento di stelle impazzite, di corpi incendiati in caduta libera, si rivela, in un secondo momento, come un'orchestrazione di equilibri orbitali. In un ipotetico percorso à rebours, ci si può prefigurare che ogni traccia fluorescente, disegnata nello spazio, rientri geometricamente nella propria costellazione, generando stupore e armonia contro ansie apocalittiche. Come se i panneggi di Caravaggio o le strutture piramidali di Delacroix si deprivassero dei loro referenti umani, naturalistici, per riconvertirsi compostamente in punti luce nella notte.
Fergola, architetto che non smette di attivare un immaginario altro, un sapere pittorico antico, un'attitudine matematica remota, di imponderabile ascendenza genetica, lavora alla sacralità senza rappresentare il sacro. Se nei suoi dipinti si cerca il vuoto si trova il modo di commisurarvisi, se il pieno il modo di commutarlo in turbini di pieghe, se la terra il modo di attentare al cielo, riconfermando alla luce la legittimità di rapportarsi al buio. Quelli che appaiono come voli dell'immaginazione altro non sono che modalità luministiche di strutturare uno spazio dipinto, pronto a dissolversi, riportando al nero d'origine il fondo della tela. In termini di anacronismo, quale potenziale attrattivo esercita una pittura senza referenti realistici in quanto costruita su referenti linguistici? Quello della tentazione a dire l'indicibile, a descrivere forme di forme, fughe di contenuto. Di ordine paradossale è la distanza che intercorre tra il minimalismo strutturale dell'architetto e l'opulenza barocca del pittore. Tra le tessiture e i reticoli dei disegni a penna o matita, tra le piccole e le grandi tele, rettangolari o tonde, tutti monumenti a una matematica della decostruzione, si stabilisce una corrente continua. I suoi attentati al classicismo delle forme si traducono, a livello emozionale, in sensazioni di vertigine. Sua costante connotazione è quella di trasfigurare una moltitudine di figure mancate, che visivamente si affollano sulla tela come razionalmente se ne dileguano.
La sua decodificazione della pittura si realizza in una ripetizione indefinita di determinate modalità espressive, tributarie della storia dell'arte come di quella della musica e della letteratura. Un ritmo ossessivo esaspera intenzionalmente atmosfere barocche, aure apocalittiche, rapimenti romantici, effetti luministici. Arrangiatore di immagini, metafore, allegorie dello stile, l'artista si esercita a una dimensione del non-finito che si sporge sull'infinito.


VIANA CONTI. Critico d'arte /Giornalista Genova, agosto 1997

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